martedì 30 giugno 2009
lunedì 29 giugno 2009
martedì 23 giugno 2009
fu
Forse è solo colpa di quel maledetto mal di collo – e quella testa fissa, rigida come nelle figure di certi quadri di scuola minore, lo sguardo che a fatica contiene il fastidio. Non poter girare la testa, proprio quando come mai prima soffia un vento che potrebbe essere quello della tempesta definitiva. La tempesta perfetta, per i mille e mille odiatori del Cav. Immobilizzato. E così, lo stesso da quindici anni a questa parte, è il corpo del sovrano che parla e si espone e comunica. Prima delle parole, prima di tutta l’immensa platea adorante – come il suo ideale modello, il Re Sole, il Cav. ha forgiato il suo partito, trasformando la spada in corte, la nobiltà in cortigiani: docili, ma nel bisogno sostanzialmente inutili – è il suo corpo che come sempre parla, come del suo corpo quasi sempre lui ha parlato. Appare un corpo dolente, quello che in questi giorni si trascina tra telegiornali e visite di stato, Gheddafi e Obama, abbracci e baci – ma sempre quell’ombra di inquietudine, il soffio di qualcosa che si sente arrivare ma non si può controllare.
Scomposto, vivisezionato, ammirato, osannato, detestato, impiccato – e sovranamente curato, cerone e approssimativa capigliatura, apparenza e sostanza, i gesti (sempre quelli), il sorriso (sempre quello), uno stranito stupore (questo del tutto nuovo), il corpo del Cav. (da cui pure apposito saggio antipatizzante di Marco Belpoliti) è stato sostanza ed espressione della stagione epica della sua politica. Ancora la settimana scorsa, ai virgulti della Confindustria, raccontava del fastidio di stringere mani sudate, che poi magari quello a cui la stringi successivamente pensa che sei tu che sudi e non sa che è il sudore di quello precedente – e un sussulto di antichi accorgimenti e di patimenti che ormai evocano più sottigliezze da stagione chiusa che strategie di conquiste di nuove stagioni.
Il corpo del Cav. è stato il Cav. prima del Cav. stesso: il mito della calza sulla telecamera al suo debutto, il tripudio del doppiopetto, le scarpe col tacco o senza tacco (sospetta cattiveria comunista, ecco), gli anni che biologicamente si dimezzavano, le notti metà in discoteca e metà a raccontarsi, “se dormo tre ore, poi ho ancora energia per fare l’amore per altre tre”, il vedersi e il tastarsi e dunque il lodarsi, “vi auguro di arrivare a settant’anni nello stato di forma in cui sono arrivato io”, il cerone che maligno, a volte, lasciava lieve traccia sul collo della camicia azzurra.
Nella storia repubblicana, mai il corpo di un politico era stato così tanta sostanza della stessa politica. La mentina in bocca contro il cattivo alito, il sole in tasca sempre raccomandato, i corpi dei candidati (in generale, non c’entra la storia delle veline) esaminati e filmati, il corpo che si levava alto (be’, diciamo: più in alto) sul predellino per fondare un partito. Il corpo, il corpo, sempre il corpo. Identico sempre, pur sempre mutando, dalle cravatte di Marinella alla bandana, dalla camicia nera al ciondolo sul petto: prima che leader, il Cav. si era trasformato in icona perfetta, riconoscibile sempre – persino nell’odio, che è lo stesso un modo di mostrare forza. Il piano inclinato degli ultimi mesi ha mutato il corpo quasi insopportabilmente vitale in corpo dolente, le tante qualità (pur discutibili, ma quasi santamente eversive nel pantano italico) in grottesche parodie di ciò che furono: la vanagloria in sospetto, la considerazione di sé in eccesso di sé, un divertito populismo in ombroso stordimento.
Le qualità e i difetti, come appunto il corpo stesso, sono stati lo specchio dove tutti infine si riflettevano – per banalmente adorarlo, e pure per odiarlo e lucrarci politicamente sopra, quello specchio era necessario. Fu, se non sposa del regno, come la grande Elisabetta I (pure lei maschera e senso di un’intera epoca), quantomeno zio – saggio o matto o divertente. Ora, quello specchio si è deformato, rimanda l’immagine che per primo non riconosce il diretto interessato. Forse non definitivamente rotto, certo non più levigato e lucido come fino a poche settimane fa. Vede, il Cav, ciò che tutti vediamo – quella meraviglia nello sguardo, sorpresa inattesa e sgradita, mentre intorno si accaniscono, foto su foto, plotoni di ragazze che sbucano dappertutto – quasi termiti, ormai famelicamente mediatiche. Fu Giustiniano, fu Erasmo, fu il Re Sole, fu infinite gioiose parodie, il Cav. Fu rottura, fu sorpresa, fu testardo, fu rivoluzionario, fu l’anticristo reazionario e fu il Cristo della buona rivoluzione. Fu molte cose e il suo contrario. Ma fu – e il dramma alle porte è tutto qui.
the pogues
I am welcome to almeria
We have sin gas and con leche
We have fiesta and feria
We have the song of the cochona
We have brandy and half corona
And leonardo and his accordione
And kalamari and macaroni
Come all you rambling boys of pleasure
And ladies of easy leisure
We must say adios! until we see
Almeria once again
There is a minstrel, there you see,
And he stoppeth one in three
He whispers in this ones ear
Will you kindly kill that doll for me
Now he has won cochona in the bingo
All the town has watched this crazy gringo
As he pulls off the dolls head laughing
And miraldo! throws its body in the sea
El veinticinco de agosto
Abrio sus ojos jaime fearnley
Para el bebe cinquante cincampari
Y se tendio para cerrarlos
Y costello el rey del america
Y suntuosa cait oriordan
Nor vompere mis calliones
Los gritos fuera de las casas
sabato 20 giugno 2009
venerdì 19 giugno 2009
lunedì 15 giugno 2009
premio ponchielli
dandy argentini e albini. meglio.