sabato 25 dicembre 2010

d.f.w.

“E’ difficile ottenere risposte convincenti alla domanda

E questo probabilmente per via che è quasi impossibile spingere una persona a riflettere con attenzione sui motivi per cui una cosa non gli interessa. È la noia in sé a vanificare la ricerca di risposte; l’esistenza della sensazione è più che sufficiente. Di sicuro però una delle ragioni è che la politica non è fica. O diciamo piuttosto che è la gente fica, interessante, viva, a non essere attratta dal processo politico. Ripensiamo a che tipi erano quelli che al liceo si candidavano alle cariche di rappresentanza degli studenti: un po’ sfigati, vestiti con troppa cura, ossequiosi verso l’autorità, ambiziosi ma in modo meschino. Ansiosi di partecipare al Gioco. Il tipo di ragazzi che gli altri ragazzi pesterebbero volentieri, se la cosa non sembrasse tanto inutile e noiosa”.
Non è un politologo l’autore di questo ragionamento sulla disaffezione che la politica suscita nei giovani. È uno scrittore, un grande scrittore, David Foster Wallace: lo mette nero su bianco in un reportage sulla campagna elettorale di John McCain, sfidante di George W. Bush alle primarie repubblicane del duemila. Lo si legge in Considera l’aragosta (me l’ha consigliato il mio collega Stefano Iucci), una raccolta di strepitosi saggi e inchieste al centro dei quali campeggia quello che dà il titolo al libro, che partendo dalla Fiera annuale delle aragoste del Maine arriva ad arrovellarsi con grande serietà (e perché poi dovrebbe essere diversamente?) intorno alla questione se le aragoste percepiscano dolore quando, per essere cucinate, vengono immerse vive nell’acqua bollente ( l’articolo è commissionato dalla rivista Gourmet, circostanza che aggiunge, per così dire, sapore alla lettura). Nel reportage su McCain c’è una risposta a tutte le domande che ci poniamo oggi sulla politica: non solo perché i giovani ne diffidino, ma anche sulle cose da non fare se non si vuole soccombere nella contesa (ricorrere a Negatività contro l’avversario, per esempio). Da non perdere, infine, la distinzione, che rischia spesso di sfumare agli occhi degli elettori, tra grande piazzista e leader (quella persona – un insegnante, un allenatore, un sacerdote o un rabbino – che “può farci fare cose che nel profondo sappiamo essere giuste, ma che da soli non riusciamo a fare”).Scrive Wallace: “Tra un grande leader e un grande piazzista esiste una differenza. Ci sono anche delle somiglianze certo. Un grande piazzista di solito è carismatico e accattivante e spesso riesce a farci fare cose (comprare cose, approvare cose) che forse da soli non faremmo, e sentendoci nel giusto. Inoltre, molti piazzisti sono fondamentalmente persone rispettabili e sotto tanti aspetti ammirevoli. Ma un piazzista, anche un grandissimo piazzista, non è un leader. Questo perché per un piazzista il movente ultimo e predominante è l’interesse personale: se compriamo quello che lui vende, il piazzista ci guadagna. Perciò, anche il piazzista ha una personalità molto potente, carismatica e in grado di suscitare ammirazione, e magari convincerci che comprare è nel nostro interesse (cosa che può essere vera), tuttavia una piccola parte di noi sa sempre che in ultima sede ciò che il piazzista vuole è qualcosa per se stesso. E questa consapevolezza è dolorosa…anche se, certo, è un dolore piccolino, più simile a una fitta, spesso inconscia. Ma se si è soggetti ai grandi piazzisti e alle strategie di vendita e alle teorie del marketing per lunghi periodi – come quando da bambini si guardano i cartoni animati del sabato mattina, per esempio – è solo questione di tempo prima che in noi si radichi la convinzione profonda che tutto sia questione di vendite e di marketing, e che ogni volta che qualcuno dà l’impressione di interessarsi a noi o a qualche idea o causa nobile, quella persona sia un piazzista, a cui in fine dei conti di noi o delle cause non frega un accidente, ma che in realtà vuole qualcosa per se stesso”.

C’è bisogno di aggiungere altro?