Premessa: per il Ministero della Sanità giapponese, più del 20% degli adolescenti maschi della nazione sono affetti dalla Sindrome di Hikikomori. È uno stato depressivo per cui il ragazzo rifiuta ogni forma di contatto sociale con gli altri, amici e familiari inclusi, si chiude in casa, non parla, non va a scuola, passa il suo tempo davanti alla televisione o ai videogame. La crisi può durare anche anni, e non è detto che porti a una guarigione. Studiosi affermano che gli Hikikomori siano un tremendo prodotto dell'alienazione sociale
contemporanea.
Un documentarista inglese, alla sua opera prima, va in Giappone per raccontare il fenomeno con gli occhi di uno straniero/estraneo. Entra in casa di un ragazzo (attore non professionista, come tutti gli attori del film), e lo osserva rifiutare lentamente la vita. Il tempo passa, e i suoi flebili segnali - dei bigliettini con le sue esigenze primarie - scompaiono gradualmente, trasformando il film in un giallo: cosa vorrà dire adesso? Perchè si comporta così? Quanto tempo è passato? Uscirà dalla stanza? Esistono molti modi per rappresentare la malattia al cinema.
Tobira no moku è unico. È partecipativo, intenso e interno, e allo stesso tempo è educato, silenzioso. Un iper-discreto occhio in bianco e nero, che a livello figurativo scompone l'architettura degli ambienti per spiazzare lo spettatore e condurlo in una dimensione dove non contano più le valutazioni razionali, ma solo la partecipazione emotiva. Senza melodramma. Come se il regista, spaventato in corso d'opera dalla problematicità della sindrome, si fosse trasformato in un gatto, onnisciente eppure distante. È un film che richiede impegno, ma la ricompensa per lo spettatore è del cinema di grande livello.
Quando la porta si apre, il primo spiraglio di luce è un bagno di sole in aprile.